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Bulimia da selfie

L'esigenza di disintossicarsi da una eccessiva esibizione



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Selfie s. m. o f. inv. Autoritratto fotografico generalmente fatto con uno smartphone o una webcam e poi condiviso nei siti di relazione sociale.

Questa è la definizione che la Treccani dà del termine "selfie".

Un termine ormai che fa parte del nostro colloquiare quotidiano e che sta caratterizzando il nostro modo di condividere.

Attraverso i selfie pubblicati nei canali social noi comunichiamo al mondo ogni sorta di emozione, esperienza, amicizia, pensiero, gusti e chi più ne ha più ne metta nell’oggetto e nel soggetto protagonisti dei nostri innumerevoli scatti. Scatti costruiti, pensati, organizzati ma anche estemporanei, spontanei che ormai raccontano la nostra vita reale o ideale.


Ideale perché compagni dei selfie sono i filtri attraverso i quali filtriamo i nostri “difetti” e creiamo l’immagine che vorremmo rappresentare ma che spesso non è rappresentativa della nostra immagine reale.

Immagine reale che non sempre corrisponde ad un modello ritenuto bello, di successo, alla moda e che dunque va modificato, filtrato in modo da essere al passo con i tempi odierni che impongono un certo tipo di caratteristiche per ottenere più cuoricini e più like possibili.


A ricordarci il valore che hanno i cuoricini per i nostri selfie c’è una canzone protagonista del festival della canzone italiana 2025. “Ma tu volevi solo cuoricini, cuoricini. Pensavi solo ai cuoricini, cuoricini. Stramaledetti cuoricini, cuoricini. Che mi tolgono il gusto di sbagliare tutto. Che dovrei dire io che ti parlavo E tu nemmeno ti mettevi ad ascoltare Tu mettevi solo Cuoricini, cuoricini Pensavi solo ai cuoricini, cuoricini Stramaledetti cuoricini, cuoricini Ma dove scappi senza Cuoricini, cuoricini Per l’autostima Cuoricini, cuoricini Che medicina Cuoricini, cuoricini”. 


E non è solo una canzonetta a ricordarci che pensiamo solo ai cuoricini che ci danno l’autostima e che sono come una medicina. Una medicina amara che però sa d’illusione quando la nostra mente è invasa dalla dipendenza da selfie; una bulimia inarrestabile a cui non sappiamo resistere e che ci spinge ad entrare nella spirale di farci selfie ovunque e con chiunque e poi pubblicarli e andare a monitorare quanti like, quanti cuoricini per sentirci appagati e per restituirci una fragile e illusoria “esistenza sociale”.

Bulimia che ci porta a fotografarci quando mangiamo, ci vestiamo, ci laviamo, ci addormentiamo, ci emozioniamo, ci incontriamo, ci sorprendiamo………..Bulimia che illude la mente di essere piena di affetti, di relazioni, di attenzioni, di apprezzamenti ma che paradossalmente crea una sempre più profonda fame di essere riconosciuti per quello che realmente si è.


Essere che nell’era dei selfie si è completamente trasformato in Avere un immagine che non corrisponde se non per una minima parte a ciò che siamo, a ciò che sentiamo, a ciò che amiamo, a ciò che detestiamo, a ciò che temiamo. Temiamo il non essere, se non attraverso l’apparire, se non attraverso il filtrare la nostra  “maschera” più profonda che non è poi cosi bella, cosi perfetta, cosi efficiente, cosi alla moda, cosi felice. La felicità che oggi troppo spesso è solo di facciata ma che nasconde un profondo senso di solitudine e di “insostenibile leggerezza dell’essere” come direbbe Kundera.


Disintossichiamoci da questa assurda bulimia di dover immortalare tutto, di dover condividere  tutto con gli amici virtuali che poi di Amicizia non hanno nulla, di dover per forza apparire oltre il nostro essere. Ripercorriamo la via della semplicità, dell’imperfezione, della naturalezza e godiamoci ciò che è e non ciò che ci appaga attraverso l’illusorio senso di sazietà che abbuffa la nostra mente di “emozioni” spazzatura.


Spazzatura che intossica il nostro sentire e che piano piano costruisce un'identità illusoria che si distanzia sempre più da quella reale, un illusione che è oltre la percezione che abbiamo di noi stessi e del mondo. Un illusione che ci fa percepire come appariamo nei social, come vorremmo essere ma non siamo. Un'illusione che ci anestetizza rispetto alla capacità di analisi critica dei nostri pregi e dei nostri difetti e che ci impedisce un percorso di discernimento che si basi su aspetti profondi e non superficiali dell’esistenza umana.


Superficialità che caratterizza il mondo dei social perché impone una certa omologazione, un certo canone estetico e valoriale che pone al centro l’apparire e non l’essere. Essere all’interno di un sistema di scatti in cui tutto deve essere testimoniato, condiviso nell’ottica dell’efficienza, del successo, della forza e della moda. È alla moda fare la fila per andare a rendere l’ultimo omaggio al Santo Padre per farsi un selfie con la salma e testimoniare di essere stati lì. Essere lì senza pensare, senza dare valore alla vita e alla morte, alla dignità e alla riservatezza. Essere lì per testimoniarlo agli altri e non per rendere quel momento un momento di riflessione personale e profondo.


È alla moda anche la morte nell’era dell’essere attraverso i selfie, in cui l’abbuffata di notorietà non ha limiti di dignità, di umanità ma fa straboccare il senso di civiltà senza neppure accorgerci e renderci conto di quanto male stiamo facendo a noi stessi, alla nostra specie, mettendo in atto una regressione valoriale che non ha eguali.

Se in una società non c’è rispetto e salvaguardia per l’intimità della morte, credo che non ci sia rispetto per nulla e che tutto assuma un valore relativo che coniuga la supremazia di una superficiale disumanizzazione sul rispetto della riservatezza e del pudore.


La perdita di un certo pudore e la perdita della purezza sono le cause profonde della decadenza del mondo”.

(Madre Teresa)


La decadenza di un mondo che si consuma nell’indecenza della spudoratezza della bulimica necessità di immortalarci belli, bravi, efficienti e contemporanei. Una decadenza che sprofonderà nella disumanizzazione se non freniamo questa nostra spudoratezza a mostrarci, ad esibirci. Esibizione che dovrebbe lasciare il posto alla bellezza del conservare le immagini, le sensazioni, i ricordi nella nostra mente, nell’intimità del nostro sentire e che possiamo ricordare attraverso una narrazione condivisa con le persone a noi veramente Amiche.


Ritornare a dare senso e valore al contatto, alla veridicità dell’incontro ponendoci una domanda: ma ne vale proprio la pena filtrare la mia immagine per farla vedere a chi? 

Prima di fare un selfie chiedersi: ma è  giusto, dignitoso, rispettoso immortalare questo momento? È proprio necessario fare una foto adesso, qui? 


Dopo aver fatto un selfie chiedersi:  ma è importante per me farlo vedere a tutti o è più importante condividerlo con le persone a me care?

Un ritrovato senso del pudore, della salvaguardia della propria intimità, della decenza che non tutto può e deve essere pubblico fa bene alla nostra mente, fa bene alla declinazione dell’essere che torna a dominare sull’apparire e sull’importanza superficiale dell’avere “cuoricini”.  Cuoricini a cui, loro malgrado , sottoponiamo anche i nuovi nati a cui insegniamo che l’importante è avere like, che l’importante è essere influencer


Perché come ci  spiega sapientemente Byung-Chul HanGli influencer sono adorati come modelli esemplari: cosí il tutto riceve una dimensione religiosa. Gli influencer, nella veste di guide motivazionali, si atteggiano a salvatori. I follower partecipano alla loro vita come discepoli, comprando i prodotti che gli influencer ingiungono di consumare nella messa in scena della loro quotidianità. Cosí i follower prendono parte a una eucaristia digitale.”


"Eucaristia digitale" che giace all’apice della scala valoriale della società dell’esibizionismo sfrenato e filtrato e che pone al centro, per le generazioni native digitali e non solo, l’apparire più che l’essere.

La salute mentale è anche salvaguardia della propria e altrui riservatezza e dunque proponiamo di mettere in atto una disintossicazione da un eccessiva esibizione.



Prof.ssa Maura Ianni

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