L'efficacia di una buona comunicazione in ambito oncologico
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La mia esperienza è comune a quella di tante altre persone, ma a viverla sembra straordinaria e, a volte, particolarmente “sfortunata”. Non ho mai pensato “perché a me”, né con il primo tumore, né con il secondo e neppure con il terzo. E non credo che mi lamenterò in questi termini nemmeno con la probabile recidiva che sembra affacciarsi con l’ultima PET-TC.
È successo a me, sta ancora succedendo a me e va bene così. Meglio a me che a mia figlia, per esempio. Meglio a me che a qualsiasi altra persona che amo. Meglio a me che a chiunque altro che non abbia la forza fisica e psicologica per affrontare una malattia che fa ancora tanta paura perché mortale (secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il cancro è la seconda causa di morte nel mondo) e difficile da sopportare sia per l’impatto delle cure, sia per gli esiti debilitativi degli interventi chirurgici, nonostante la ricerca abbia fatto passi da gigante negli ultimi anni.
E io lo so bene, visto che il mio primo tumore l’ho scoperto nel 2004, all’età di 37 anni e, allora, con una dolcissima bimba di due. In quegli anni vivevo e lavoravo in Lombardia e - più precisamente a Lodi - a due passi da quella che può essere considerata una struttura d’avanguardia nel panorama mondiale: l’Istituto Europeo di Oncologia (IEO).
L’ospedale che mi diagnosticò il tumore, a seguito di screening, non era evidentemente preparato sull’importanza della fase della comunicazione intesa come “tempo di cura” che, d’altra parte, non era stata ancora nemmeno enunciata in questi termini (troviamo l’espressione, infatti, per la prima volta nel 2005 nella Carta di Firenze, poi recepita dal Codice deontologico dei medici; ora è codificata in una legge dello Stato del 2019, “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”).
Fatto sta che, all’esito dello screening, fui immediatamente contattata per entrare in sala operatoria entro pochi giorni, con la prospettiva di un intervento chirurgico demolitivo (mastectomia), compreso lo svuotamento del cavo ascellare. Alle mie rimostranze volte a capire cosa stesse succedendo, così all’improvviso, mi venne risposto che “non avevo più tempo” e che l’intervento, già programmato, doveva svolgersi in quei tempi e termini.
Dopo un primo momento di sconforto e pura angoscia, presi la mia decisione contraria, assumendomi la responsabilità di voler chiedere un secondo parere.
E a chi se non al predetto Istituto di eccellenza?
Furono giorni, anzi settimane, di terribile attesa e di notti insonni, lontana dall’immediato supporto familiare (la mia famiglia e quella di mio marito vivono nel Lazio) e da qualsiasi certezza. Finalmente arrivò l’anelata visita, a pagamento, presso l’IEO, dove tutto, sin da subito, assunse una dimensione seria ma non allarmistica e capii io stessa, in prima persona, l’importanza di una buona e corretta comunicazione: il colloquio con il medico ebbe gli effetti di un atto terapeutico. Mi preparai all’intervento senza angoscia con la convinzione che i chirurghi avrebbero fatto di tutto per salvare il salvabile. Avrei dovuto essere operata il giorno del mio 38esimo compleanno ma, a causa di un’emergenza, l’intervento fu rinviato al giorno successivo.
Lo trascorsi ovviamente in ospedale, con un digiuno quasi ininterrotto di quarantotto ore e una graditissima visita serale dei chirurghi preposti all’intervento che si scusarono con me per non aver potuto procedere come da programma e mi salutarono con un tranquillizzante “ci vediamo presto, belli e riposati”.
Fu comunque una mastectomia radicale sinistra, con biopsia del linfonodo sentinella che risultò negativo. Seguì la chemioterapia adiuvante per quattro cicli e una cura sperimentale per cinque anni, nel corso della quale ad ogni controllo venivo ascoltata e visitata attentamente.
Al termine dei cinque anni di cura e solo dopo un anno in cui pensavo di essere “guarita” e uscita dal tunnel degli impegni dei numerosi controlli ed esami, la paura di un nuovo tumore prese il sopravvento nella mia testa e, purtroppo, in breve la paura si trasformò in certezza.
Nel frattempo, avevo anche ottenuto il trasferimento della sede di lavoro da Lodi a Roma che, se da un lato mi riavvicinava alla famiglia, dall’altro mi allontanava dall’IEO che, fino a quel momento, mi aveva avuto in carico. Mi operai a Milano nel mese di agosto 2012 (mastectomia destra e asportazione dei linfonodi), sopportando i lunghi viaggi, in treno o in macchina, fino alla rimozione dei drenaggi e dei punti; poi, su suggerimento dell’IEO stesso, mi sottoposi a chemioterapia presso il Campus biomedico di Roma.
Per un po’ di tempo fui seguita da entrambi gli Istituti che dialogavano tra loro: un felice esempio di collaborazione che mi fece vivere questa nuova esperienza in tutta serenità.
Senza soluzione di continuità, mentre proseguivo la cura di mantenimento prevista per un quinquennio per il secondo tumore, ecco affacciarsi l’incubo di una recidiva, confermata a marzo 2020, nello stesso momento in cui l’OMS, dopo aver valutato i livelli di gravità e la diffusione globale dell’infezione da SARS-CoV-2, dichiarava che l’epidemia di COVID-19 era una pandemia.
Un difficile momento per tutti, ma soprattutto per la cosiddetta popolazione fragile, di cui i malati oncologici fanno parte. Nel caos più totale, tra rischi di contagio, chiusure obbligatorie, servizi al cittadino limitati e isolamento coatto che non sempre si poteva rispettare per la necessità di doversi recare in ospedale per le cure salvavita, sono andata avanti sopportando gli effetti dei farmaci assunti quotidianamente e delle terapie periodiche mensili fino alla fine del 2022.
In questo periodo, forse a causa del generale nefasto contesto, il rapporto con i medici si fece più distante e affrettato e cambiò anche il legame stabile con il medico di riferimento trovando, sempre più spesso, solo medici specializzandi nelle visite che precedono le terapie. Tutto era diventato stancante routine: nessuna attesa, nessuna pretesa.
Ad ogni visita chiedevo quale fosse l’aspettativa e ogni volta mi veniva ripetuto che dovevo entrare nell’ordine delle idee che la mia malattia era cronica e che, perciò, mi avrebbe accompagnato per il resto della vita così come le terapie finché continuavano a funzionare. Poi, all’improvviso, dopo due anni in cui mi era stato ripetuto che il mio terzo tumore era inoperabile, fui contattata da un chirurgo del Campus biomedico (e non dagli oncologi che mi seguivano da due anni), che mi comunicò che, a seguito della discussione del mio caso in sede di meeting multidisciplinare, ero stata candidata per visita senologia e rivalutazione (per eventuale asportazione della recidiva, linfadenectomia destra ed eventuale asportazione del muscolo piccolo pettorale).
Rimasi sorpresa e quasi scioccata. Scrissi ripetutamente al Campus senza ottenere risposta (in tutti questi anni non mi è stato mai fornito un numero di cellulare per le emergenze ma solo numeri fissi e indirizzi e-mail). L’intervento chirurgico eseguito il 2 febbraio 2023 è stato più radicale e invasivo del previsto con l’asportazione di recidiva neoplastica locale e dei muscoli grande pettorale e piccolo pettorale, con conseguente limitazione della funzionalità del braccio destro. Alle cure giornaliere e terapie mensili, si sono aggiunti cicli di radioterapia (tutti i giorni) e di ipertermia (una volta a settimana) per tre mesi e, a seguire, fisioterapia e bendaggi al braccio leso.
La situazione permane difficile e sarebbe magnifico trovare più spesso un supporto morale oltre che strettamente medico. Sulla base della mia esperienza personale, lunga ormai un ventennio senza interruzioni, ho maturato la convinzione che la comunicazione tra medico e paziente rappresenta uno strumento importantissimo non solo per trasmettere al paziente informazioni cliniche chiare e complete, ma anche per influire positivamente su aspetti quali la compliance ai trattamenti, il controllo del dolore e il miglioramento del livello di benessere fisico e psicologico del paziente.
Più sono stata ascoltata, compresa e “coccolata” e meglio ho reagito ai postumi degli interventi e delle terapie, che comunque ti sottraggono vita. Il rapporto che stabiliamo con la malattia riguarda la nostra intera esistenza (famiglia, lavoro, svago) e quella di chi ci sta vicino. Sin dall’inizio, e senza smettere mai di farlo, ci poniamo mille domande perché vogliamo sapere ogni cosa sulla malattia e su quali saranno le nostre prospettive future.
Per questo la comunicazione in ambito oncologico non può esaurirsi nel fornire informazioni tecniche sulla condizione del malato, ma deve essere volta a creare una relazione empatica con il paziente, che ha bisogno anche di raccontare, di prendersi del tempo per esprimere le proprie emozioni e di ricevere attenzioni. Nel mio caso, la relazione medico-paziente, soprattutto con riguardo alla comunicazione, non è stata sempre ottimale e certamente ha fallito proprio nei momenti più delicati, quelli in cui ci si trova di fronte alle prime diagnosi e agli improvvisi cambi terapeutici.
Sono momenti in cui manca letteralmente il fiato, il cuore sembra fermarsi e tutto intorno a noi cambia forma e colore. Poi ci si riprende e si prosegue il cammino della vita lungo la nuova strada. Non so se si può chiedere di più al Servizio Sanitario Nazionale, quello che è certo è che la mia vita sta andando avanti dopotutto ed è un fatto non scontato.
Dott.ssa Laura Boi
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