Asimmetrie dei giorni pari
Autore: Valentina Di Ludovico
Editore: Bertoni
Pagine: 236
Nel romanzo Asimmetrie dei giorni pari (Bertoni Editore, 2025), Valentina Di Ludovico esplora la fragile architettura della mente e del tempo, trasformando la narrazione in un laboratorio della percezione. La protagonista, Marta, vive secondo un ritmo binario — giorni “pari” in cui salva, giorni “dispari” in cui perde — che struttura e al tempo stesso corrompe la sua esistenza. La lingua di Di Ludovico, vibrante e frammentata, diventa corpo e sintomo, mettendo in scena una tensione costante fra ordine e disgregazione. L’opera si inserisce nel solco della narrativa introspettiva contemporanea, ma ne oltrepassa i confini, intrecciando la psicanalisi alla poiesis e trasformando la malattia del controllo in una forma di conoscenza. La poetica dell’asimmetria. Asimmetrie dei giorni pari è un romanzo che vive di scarti, pause e irregolarità. Fin dal titolo, Di Ludovico dichiara il suo programma poetico: fare dell’imperfezione una misura del reale. L’asimmetria non è solo un tema, ma un principio strutturale, una metafora del vivere contemporaneo, segnato da fratture emotive e percettive che il linguaggio tenta invano di ricomporre. La protagonista, Marta, si muove in un universo in cui ogni gesto quotidiano è rituale di sopravvivenza. Il suo contare fino a tre, il toccare la piccola matrioska Merilda, la necessità di pulire ossessivamente ogni superficie: tutto risponde a un bisogno disperato di dare senso al caos. Ma questo ordine è illusorio, fragile come la logica che tenta di sostenerlo. L’autrice ci introduce nel mondo di Marta con una scena d’impatto — un incidente stradale che sembra accadere e non accadere — per collocare fin da subito il lettore nel territorio ambiguo del possibile, dove reale e immaginario si confondono. Da quel momento, la narrazione si sviluppa come una spirale: ogni evento rimanda a un trauma precedente, ogni immagine contiene un’altra immagine, in un gioco di rifrazioni che disegna la mente della protagonista più che il suo destino. Il linguaggio come corpo e sintomo. In Di Ludovico la lingua è materia viva, un organismo che respira e si contrae. La prosa è breve, ritmica, spesso interrotta da frasi sospese o da immagini sensoriali che invadono la pagina come visioni. Il lessico alterna termini concreti — legati alla pulizia, al corpo, agli odori, alla casa — a improvvise aperture liriche che svelano la potenza poetica dell’autrice. L’effetto è quello di una tensione continua tra la precisione del gesto e la vertigine dell’immaginazione. Questa scrittura “corporea” ricorda certe pagine di Clarice Lispector, dove la percezione diventa pensiero e il pensiero si fa carne. Ogni parola in Asimmetrie dei giorni pari sembra provenire da un’esperienza fisica: non si racconta l’angoscia, la si sente nella costruzione sintattica, nei respiri spezzati, nella musica segreta delle pause. La protagonista, Marta, non parla: agisce attraverso la lingua. La parola non descrive, ma sostituisce l’azione. Così il linguaggio diventa il vero corpo del romanzo, luogo di una lotta incessante tra senso e non senso, tra lucidità e dissoluzione. In questo, Di Ludovico si inserisce in una linea di scrittrici che hanno fatto della frattura interiore un’esperienza estetica — da Duras a Ferrante — ma lo fa con un’intensità tutta personale, dove l’ossessione diventa forma e la nevrosi si trasforma in struttura narrativa. Genealogia femminile e resistenza. Se Marta rappresenta la disgregazione e la paura, la nonna Zasa incarna la forza vitale e la concretezza della materia. È lei il polo terrestre di questo universo interiore, figura arcaica e ironica che rompe il tono cupo della narrazione e introduce un’energia tellurica, quasi pagana. Zasa è una donna che ha visto la guerra, la povertà, la perdita. È radicata nella terra, nel corpo, nei gesti manuali. In opposizione alla nipote, che misura il mondo con i numeri e le ossessioni, la nonna lo misura con le mani e con la voce. Il loro dialogo è il vero centro emotivo del romanzo: due linguaggi che non si comprendono del tutto, ma che si cercano e si completano. Attraverso questo rapporto, Di Ludovico costruisce una genealogia femminile in cui l’eredità non è un sapere ma una tensione: la capacità di resistere, di mantenere una forma anche nel disordine. Non c’è idealizzazione, non c’è nostalgia: c’è il corpo che continua a muoversi, a cucinare, a curare l’orto, a ridere perfino della morte. Il tempo spezzato e la memoria come spazio. Uno degli elementi più affascinanti di Asimmetrie dei giorni pari è il modo in cui il tempo si disgrega. Il romanzo non segue una linearità cronologica, ma procede per frammenti, ritorni, allucinazioni. I ricordi non vengono narrati, ma si riattivano come esperienze sensoriali. Il tempo diventa uno spazio che si piega e si distende, in cui presente e passato coesistono. L’incidente iniziale, la scomparsa dei genitori, le scene della quotidianità con Zasa si fondono in un continuum che non distingue più il reale dal mentale. La mente di Marta non è solo protagonista: è il luogo stesso del racconto. Ogni dettaglio — un’auto, una bambina, una macchia, un odore — può aprire una voragine mnemonica. Questo uso del tempo come materia viva colloca il romanzo in dialogo con la psicoanalisi narrativa contemporanea, ma anche con il cinema della percezione: la scrittura di Di Ludovico ha una qualità visiva, quasi cinematografica, che alterna primi piani e dissolvenze, luci e ombre, in una messa in scena del pensiero. L’etica del disordine: una scrittura di sopravvivenza. Nel fondo, Asimmetrie dei giorni pari è un romanzo etico. Non perché proponga una morale, ma perché interroga la possibilità stessa di resistere. Marta cerca un modo per sopravvivere alla paura della morte, ma la risposta non è la guarigione: è la consapevolezza dell’asimmetria come condizione necessaria dell’esistenza. Il disordine, in Di Ludovico, non è un difetto ma una forma di verità. L’equilibrio non è la meta, ma la soglia da attraversare ogni giorno. E la scrittura, con la sua precisione febbrile, diventa lo strumento di questa sopravvivenza. La prosa dell’autrice è tesa, viscerale, senza orpelli, ma capace di lampi lirici improvvisi che aprono brecce nella claustrofobia del racconto. Ogni frase è una lotta per la chiarezza, ogni parola un tentativo di salvezza. E forse in questa tensione si trova la frase che meglio racchiude la poetica del romanzo: Valentina Di Ludovico scrive come chi tenta di riordinare un sogno infranto, sapendo che ogni gesto di chiarezza è, in fondo, un atto di resistenza al caos. L’asimmetria come conoscenza. Asimmetrie dei giorni pari è un’opera di grande coerenza estetica e psicologica. Nella sua struttura franta e musicale, nella lingua che oscilla fra concretezza e allucinazione, si rivela la maturità di un’autrice capace di coniugare introspezione e visione, dolore e lucidità. Il romanzo non si limita a rappresentare la mente: la costruisce sulla pagina, trasformando il disturbo in architettura, la paura in ritmo, la memoria in spazio narrativo. È un testo che chiede al lettore di sostare nell’inquietudine, di accettare la vertigine, di rinunciare alla simmetria. In un panorama narrativo spesso dominato dal bisogno di linearità, Di Ludovico ci ricorda che la verità, come la vita, è fatta di incrinature. E che solo attraverso l’asimmetria possiamo ancora comprendere la profondità del reale.
Dott.ssa Lisa Di Giovanni